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Phytagoras profectus primo Aegyptum, mox Babyloniam ad perdiscendos siderum motus AD originemque mundi spectandam, summam consecutus est scientiam . Inde regressus Cretam et Lacedaemona contenderat ut Minois et Lycurgi inclitas leges cognosceret. Postea Crotona venit populumque in luxuriam lapsum auctoritate sua ad usum frugalitatis revocavit. Laudabat cotidie virtutem, enumerabat vitia luxuriae et casus civitatum ea peste perditarum, revocabat matronas ad pudicitiam et viros ad modestiam.consecutus est autem ut matronae auratas vestes ceteraque dignitatis suae ornamenta velut instrumenta luxuriae deponerent eaque omnia deferrent in Iunonis aedem et deae consecrarent. cum annos viginti crotone egisset, metapontum ibique decessit. | Pitagora, andando dapprima in Egitto, e in seguito a Babilonia per imparare bene il moto dei pianeti e per esaminare l’origine del mondo, conseguì un grandissimo sapere. Dopo essere tornato da lì, era andato a Creta e a Sparta per conoscere le famose leggi di Minosse e Licurgo. In seguito giunse a Crotone e fece tornare il popolo, caduto nella lussuria, con la sua autorità alla pratica della moderazione. Lodava ogni giorno la virtù, annoverava i vizi della lussuria e la rovina delle cittadinanze corrotte da quella malattia, faceva tornare le signore alla pudicizia e gli uomini alla moderazione. Tuttavia ottenne che le signore abbandonassero le loro vesti dorate e i restanti simboli delle loro dignità, come strumenti della lussuria, e di portare tutte quelle nel tempio di Giunone e consacrarle alla dea. Quando aveva trascorso vent’anni a Crotone se ne andò nel Metaponto e lì morì. |
Roma interim crescit Albae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur eam sedem Tullus regiae capit ibique habitavit. Principes Albanorum in patres ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Seruilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; templumque ordini ab se aucto curiam fecit quae Hostilia usque ad patrum nostrorum aetatem appellata est. Et ut omnium ordinum viribus aliquid ex novo populo adiceretur equitum decem turmas ex Albanis legit, legiones et veteres eodem supplemento explevit et novas scripsit. | Intanto Roma crebbe sulle rovina di Alba. Il numero di cittadini si raddoppiò; il monte Celio fu aggiustato per la città e, affinché fosse abitato più numerosamente, Tullio scelse quella come sede della sua reggia, e là in seguito abitò. Elesse nel Senato i capi più autorevoli degli Albani affinché crescesse anche quella parte dello Stato; Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi, Clelii; e edificò la curia come luogo sacro di riunione che fu chiamata Ostilia fin dall’età dei nostri avi. E affinché dal nuovo popolo fosse aggiunto qualcosa alle forze di ogni ordine, elesse dieci squadroni di cavalleria tra gli Albani, e completò con quello stesso supplemento le legioni veterane e ne arruolò di nuove. |
Ego quidem kalendis Ianuariis acceperim rempublicam, Quirites, intellego, plenam sollicitudinis, plenam timoris, in qua nihil erat mali, nihil adversi, quod boni non metuerant, improbi non exspecterant. Quae cum ego non solum suspicarer, sed plane cernerem, dixi in senatu me popularem consulem futurum. Quid enim est tam populare quam pax? qua non modo ii quibus natura sensum dedit, sed etiam tecta atque agri mihi laetari videntur. Quid tam populare quam libertatis? quam non solum ab hominibus, verum etiam a bestiis expeti atque omnibus rebus anteponi videtis.Quid tam populare quam otium? quod ita iucundum est ut et vos et maiores vestri et fortissimus quisque vir maximos labores suscipiendos putet ut aliquando in otio esse possit. Quin etiam maioribus nostris praecipuam laudem debemus quod eorum labore est factum ut impune in otio esse possemus. Itaque qui modo possum non esse popularis, cum videam haec omnia, Quirites, pacem externam, libertatem, otium domesticum, denique omnia, quae vobis cara sunt, in fidem et in patrocinium mei consulatus esse collata? | Io capisco, o Quiriti, quale Stato io abbia preso in mano il primo gennaio, pieno di affanni, pieno di paura, nel quale con c'era nessun male, nessun'avversione che glio onesti non temessero e i disonesti non aspettassero. Ed io, non solo sospettanto queste cose, ma vedendo(le) chiaramente, ho detto in senato che sarei stato console del popolo. E infatti cosa c'è di tanto popolare quanto la pace? E mi sembra che non solo quelli ai quali la natura ha dato la percezione, ma anche tetti e campi si rallegrino di questa. Che c'è di tanto popolare quanto la libertà? E vedete che essa e ricercata non solo dagli uomini, ma anche dalle bestia e che è anteposta a tutte le (altre) cose. Che c'è di tanto popolare che la tranquillità? Ed essa è così allegra che sia voi che i vostri antenati e tutti gli uomini più forti pensano che bisogna sobbarcarsi le fatiche più grandi affinché una buona volta si possa stare in tranquillità. Che anzi dobbiamo una lode precipua ai nostri antenati perché grazie alla loro fatica è avvenuto che noi possiamo stare tranquillamente in pace. Pertanto come posso non essere dalla parte del popolo, vedendo che tutte queste cose, Quiriti, (e cioè) la pace esterna, la libertà, la tranquillità interna e infine tutte le cose che vi sono care, sono state portate in garanzia e tutela del mio consolato? |
Olim duo amici, qui idem iter faciebant, in ingentem ursum incurrerunt. Tum minor natu ex iis, quia validior erat, celeriter in altam arborem ascendit, cum alter, qui etiam claudus erat neque in arborem ascendere poterat, humi se stravit, cum sciret ursos cadavera non tangere. Ursus ad hominem iacentem se appropinquavit et, cum eum unguibus perpentavisset, os ad eius vultum admovit. Cum homo immobilis maneret atque spiritum retineret, ursus, nullum vitae vestigium cernens, eum neglexit et abiit.Tum homo surrexit et cum amico, qui interea de arbore descenderat, in viam rediit. In itinere ille qui in arborem confugerat ex amico quaesivit: “Quid ursus tibi in aures insussurravit?”. Respondit ille : “Mihi hoc consilium dedit: ex hodierno die evita illos amicos quorum amicitia in rebus adversis certa non est!”. | Un tempo due amici, che facevano lo stesso cammino, si imbatterono in un grande orso. Allora il più giovane di loro, poiché era più forte, salì velocemente su un albero alto, mentre l'altro, che era anche zoppo e non poteva salire sull'albero, si sdraiò a terra, sapendo che gli orsi non toccano i cadaveri. L'orso si avvicinò all'uomo che era sdraiato e, avendolo messo alla prova con le unghie, avvicinò la bocca alla sua faccia. Rimanendo l'uomo immobile e trattenendo il respiro, l'orso, non scorgendo alcun segno di vita, lo trascurò e si allontanò. Allora l'uomo si alzò e con l'amico, che intanto era sceso dall'albero, si rimise in viaggio. Durante il viaggio quello che si era rifugiato sull'albero chiese all'amico: “Che cosa ti ha sussurrato l'orso nelle orecchie?”. Quello rispose: “Mi ha dato questo consiglio: dal giorno d'oggi evita quegli amici la cui amicizia non è certa nelle avversità!”. |
Anno secentesimo quarto ab urbe condita, tertium bellum contra Carthaginem suscipitur. L. Manlius Censorinus et Marcus Manlius consulea urbe oppugnant. Contra eos multe carthaginiensium cupie missi sunt. Consules multa praeclara facinora gerebant, sed cum urbs strenue resisteret ad omnes romanorus impetus, contra Carthaginem missus est Scipio, Scipioni Africani nepos, qui tum peritissimus rei militaris habebatur. Huius apud omnes in gens metus et reverentia erat.Tandem, post trium anno rum obsidionem, urbs capta est ac funditus diruta est. spolia ibi multa inventa sunt, quae variarum civitatum excidiis Carthaginienses colegerant. Quae omnis singulis civitatibus siciliae, italie at Africae reddita sunt. | Nel 604 dalla fondazione della città, viene intrapresa la terza guerra contro Cartagine. I consoli Marco Manlio e Lucio Censoruno attaccano la città. Contro di loro furono mandate molte truppe Cartaginesi. I consoli compivano molte illustri imprese, ma poiché la città resisteva valorosamente a tutti gli attacchi dei romani, fu mandato contro Cartagine Scipione, nipote di Scipione l’Africano, che allora era ritenuto espertissimo dell’arte militare. Di costui c’era presso tutti grande timore e rispetto. Alla fine, dopo un assedio di tre anni, la città fu presa e fu distrutta dalle fondamenta. Li furono trovati molte spoglie, che i Cartaginesi raccolsero dai saccheggi di varie città. Tutte queste cose furono restituite alle singole città della Sicilia, dell’Italia e dell’Africa. |
Cicada convicium faciebat et somno excitabat noctuam, adsuetam (= abituata) quaerere in tenebris cibum atque in cavo (= incavato) ramo interdiu capere somnum. Noctua frustra implorabat silentium; nam cicada moleste clamabat. Tum noctua garrulam bestiolam fallacia decipit: "Filia Musarum, sonos mirifice e cithara trahis; nunc, quia (= poiché) non dormio, potare cupio; in nidum meum (= mio) veni; sic una (= insieme) bibimus". Cicada verbis allicitur et cupida advolat: a noctua statim cicada arripitur et necatur; sic poenas oppetit superbiae. | Una cicala faceva rumore e svegliava dal sonno una civetta, abituata a procurarsi il cibo nelle tenebre e prendere sonno in un ramo incavato durante il giorno. Inutilmente la civetta implorava il silenzio; infatti la cicala strepitava molestamente. Allora con un raggiro la civetta inganna l’insetto canterino: "O figlia delle Muse, tiri fuori in un modo straordinario i suoni dalla cetra; adesso, poiché non dormo, voglio bere; vieni nel mio nido, così beviamo insieme". La cicala è attirata dalle parole e, avida, arriva in volo: la cicala viene presa subito e uccisa dalla civetta; così paga il fio della superbia. |
Tarquinius Superbus cognomen morum acerbitate meruit: nam tradunt eum regnum nefando scelere sibi paravisse, cum necavisset socerum Servium Tullium, et gravi crudelitate imperium exercuisse. Constat eum nobiles cives innumeris modis vexavisse, nonnullos interfecisse, alios exsulare coegisse. Strenuus tamen in bello fuit et imperii fines amplificavit: Latinos Sabinosque subegit, Pometiam Etruscis eripuit, Gabios vi et fraude occupavit; praeterea urbem aedificiis exornavit.Cum instituisset aedificare Capitolium, caput hominis invenit, unde vates praedixerunt Urbem caput mundi futuram esse. Cum autem Sextus Tarquinius, eius filius, Lucretiam, nobilissimam atque pudicissimam matronam, violasset, patricii, coniuratione facta, omnes Tarquinios urbe expulerunt. Tarquinius ad Porsenam, Clusii regem, confugit, sed frustra per eum regnum recuperare temptavit. Denique concessit Cumas, ubi reliquum vitae tempus exegit. | Tarquinio il Superbo si guadagnò il soprannome a causa dell'asprezza dei suoi modi: infatti, si racconta che egli si sia procurato il regno con un terribile delitto, avendo ucciso il suocero Servio Tullio, e che avesse esercitato il suo potere con grande crudeltà. Risulta evidente che egli vessò i nobili cittadini in innumerevoli modi, ne uccise parecchi, altri costrinse ad andarsene. Tuttavia, fu valoroso in guerra e ampliò i confini del regno: sottomise Latini e Sabini, sottrasse Pomezia agli Etruschi, occupò la città di Gabi con la forza e con l'inganno; inoltre, abbellì la città con edifici. Avendo deciso di costruire il Campidoglio, trovò la testa di un uomo, da cui gli indovini predissero che Roma sarebbe stata la capitale del mondo. Avendo, poi, Sesto Tarquinio, suo figlio, violentato Lucrezia, matrona nobilissima e pudicissima, i patrizi, fatta una congiura, espulsero dalla città tutti i Tarquini. Tarquinio fuggì presso Porsenna, re di Chiusi, ma tentò invano di recuperare il regno attraverso lui. Infine, si ritirò a Cuma dove trascorse il restante tempo della vita. |
Apud antiquas gentes universarum terrarum hospitium sanctum erat. Phrygiae tantum incolae inhospitalitate famosi erant. Olim Iuppiter cum Mercurio per regiones Graeciae atque Asiae iter faciebat. Duo dei, igitur, in pagum Phrygiae pervenerunt. At hic omnes incolae divinis hospitibus hospitium superbe recusaverunt. Solum Philemo ac Baucis, senes et pii coniuges, Iovi et Mercurio honores tribuerunt: nam humilem casam deis libenter raebuerunt et modestas epulas paraverunt.Dei cibum hilae sumpserunt ac deinde tranquille quieverunt. Hospitio grati, dei coniugum benignitatem valde laudavernt atque vitam baetam usque ad extremam. | Presso le popolazioni antiche di tutte le terre era santa l'ospitalità. Gli abitanti della Frigia erano allora al contrario celebri per inospitalità. Un giorno Giove faceva un viaggio con Mercurio per le regioni della Grecia e dell'Asia. Quindi le due divinità arrivarono in un villaggio della Frigia. Però qua tutti gli abitanti declinarono in modo altezzoso l'ospitalità ai divini ospiti. Solo Filemone e Bauci, anziani e devoti coniugi, concessero onori a Giove e Mercurio: difatti in modo gradevole offrirono la umile dimora agli dei e allestivano modesti banchetti. Gli dei in modo lieto presero il cibo e poi tranquillamente si rilassarono. Riconoscenti per l'ospitalità, gli dei elogiarono molto la bontà dei coniugi e diederom loro una vita felice sino alla fine. |
Coriolanus, vir magni animi et sagacis ingenii, iniquo iudicio a Romanis exsilio damnatus, ad Volscos confugit. Illis temporibus Volsci infesti Romanis erant et Coriolanus,ob iniuriam a suis civibus acceptam,iis contra patriam suam bellum ferentibus auxilium praebere statuit. Ita is dux Volscorum exercitus creatus est. Senatus, plebis hortatu, ad Volscos legatos misit pacem rogaturos, sed Coriolanus, memor et civium iniuriae et hospitum beneficii, eos Romam remisit infecta re.Iterum deinde iidem missi in Volscorum urbem ne recepti sunt quidem.Sacerdotes quoque suis insignibus velati supplicantesque ad castra hostium venerunt, sed non flexerunt animum illius, ira flagrantis. Iam Coriolanus contra suam ipsam urbem pugnaturus erat. Tum, vel publico consilio vel muliebri belli metu motae, matronae ad Veturiam, Coriolani matrem, Volumniamque uxorem eius venerunt, auxilium petiturae. Inde senex Veturia et Volumnia, duos parvos ex Marcio filios secum portans,ad hostium castra pervenerunt. | Coriolano, uomo di notevole animo e astuzia, condannato per un ingiusto giudizio dai Romani, si rifugiò dai Volsci. In quei tempi i Volsci erano ostili ai Romani e Coriolano per l’offesa ricevuta dai suoi cittadini decise di offrire aiuto a quelli che portano guerra contro la sua patria. Così lui stesso è stato nominato comandante dell’esercito dei Volsci. Il senato, per esortazione della plebe, mandò gli ambasciatori ai Volsci per chiedere pace, ma Coriolano memore dell’ingiustizia e del favore di Ospitalità, li rimando ai Romani senza nulla di fatto (senza risposte). Per la seconda volta quelli stessi mandati alla città dei Volsci neppure furono ascoltati. Anche i sacerdoti velati con le loro insegne e i supplici vennero all’accampamento dei nemici, ma non piegano l’ animo di Codesto, ardente per l’ira. Già Coriolano stava per combattere contro la sua stessa città. Allora, o per pubblico consiglio o mosse le donne per timore della guerra, le matrone vennero da Veturia, madre di Coriolano e Volumnia moglie di quello per chiedere aiuto. Quindi la vecchia Veturia e Volumnia, quando portano con loro i due piccoli da Marcio, giunsero all’accampamento dei nemici e con le loro lacrime e parole distolsero Coriolano dal suo scellerato (violento) proposito. Così quello, che già era in procinto di condurre la cavalleria contro i Romani, dopo aver cambiato parere, abbracciò la madre e la moglie, e mosse indietro dalla città l’accampamento senza intraprendere alcun combattimento (battaglia). |
Lupus macie confectus cani perpasto occurrit. Huic ille dicit: “Quomodo ego, qui te fortior sum, fame pereo, tu autem nites?”. Canis, vicinam domum ei ostendes, simpliciter respondit: “Illam domum custodio, igitur dominus mihi ossa et carnem de mensa sua iactat. Tibi quoque dominus meus ossa carnemque dabit, si illi idem officium praestabis. Sic domi securus vive nec iam in silvis vitam asperam trahes nives imbresque ferens. Veni ergo mecum, ad dominum te ducam!”.Lupus, laetus, canem sequitur sed, dum procedunt, aspicit canis collum catena attritum. Tum canem interrogat: “Quare est huius rei causa, amice?”. Respondit ille: “Nihil est! Servi me interdiu alligant quia acrior sum”. Tum lupus exclamat: “Non iam tibi invideo, canis! Ista mihi non placent. Ventris causa libertatem amittere nolo!”. Sic, libertatem catenae anteponens, lupus ad asperam in silvis vitam redit. | Un lupo sfinito dalla magrezza incontra un cane ben nutrito. Quello dice a questo: “Come mai io, che sono più forte di te, muoio di fame, tu invece sei ben nutrito?”. Il cane, mostrandogli la casa vicina, risponde semplicemente: “Custodisco quella casa, quindi il padrone mi getta ossa e carne dalla sua tavola. Anche a te il mio padrone darà le ossa e la carne, se gli presterai lo stesso servizio. Così vivrai a casa sicuro e non condurrai più una vita difficile sopportando le nevi e le piogge. Vieni dunque con me, ti porterò dal padrone!”. Il lupo, felice, segue il cane ma mentre procedono nota il collo logorato da una catena. Allora interroga il cane: “Qual è la causa di questa cosa, amico?”. Quello risponde: “Non è nulla! I servi di giorno mi legano perché sono troppo vivace”. Allora il lupo esclama: “Non ti invidio più, cane! Queste cose non mi piacciono. Non voglio perdere la libertà a causa della pancia!”. Così, anteponendo la libertà alla catena, il lupo torna alla vita difficile nei boschi. |
Homo quidam descendebant ab Ierusalem in Iericho et incidit in latrones, qui despoliaverunt eum et percusserunt, eum semivivum reliquentes. Sacerdos quidam eadem via descendebat eum vidit, nec constitit. Similiter et levita eum vidit, sed pertransii. Samaritanus autem quidam iter faciens venit secus eum et videns eum misericordiam habuit. Et appropians alligavit vulnera eius in findens oleum et vinum et imponens illum in iumentam suum duxit in stabulum et curam eius egit.Et altera die duos demarias stabulari dedit et ait: “Curam illius habe, et quodcumque supererogaveris ego, cum rediero, reddam tibi”. | Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico i si imbatté ne briganti, che lo depredarono e picchiarono, lasciandolo semivivo. Un sacerdote che scendeva per la stessa via lo vide, e non si fermò. Ugualmente anche un levita lo vide, ma passò oltre. Invece un Samaritano che viaggiava (lett. Faceva un viaggio) andò verso di lui e vedendolo, ebbe misericordia. E avvicinandosi fasciò le sue ferita versando olio e vino e mettendo sopra quello il suo giumento lo condusse nella locanda e ebbe cure di lui. E il giorno dopo diede due denari al locandiere e disse: “Abbi cura di quello, e quanto spenderai in più, io, quando ritornerò te li ridarò”. |
Echo, eximiae speciei nympha, de Iunone, lovis uxore et numinum regina, contumeliosa verba dixerat et sic maxime invisa erat. Tum Iuno statuit tam impudentis puellae loquacitatem punire et linguam eius oppressit. Echo nec surda nec muta fuit, sed eius os solum ultimam syllabam verborum iterabat, quia verba integra pronuntiare non valebat. Sic Narcissi, praestantis adulescentis, amorem deperdit, quia iuvenis balbam puellam respuit. Tunc nympha in speluncam inter montium saltus confugit neque umquam inde in lucem evasit.Deinde sola vox tam formosae virginis superstes fuit. | Eco, una ninfa di uno straordinario aspetto, aveva detto su Giunone, moglie di Giove e regina degli dei, parole offensive ed era in questo modo odiata dalla dea. Allora Giunone decise di punire cosi la loquacità dell'imprudente fanciulla e schiaccio la sua lingua. Eco non fu ne muta ne sorda, ma lei ripeteva con la bocca solo le ultime sillabe delle parole, perché non poteva pronunciare la parola intera. Cosi si innamorò di Narciso, eccellente adolescente, ma il giovane rifiuta la fanciulla balbuziente. Allora la ninfa si rifugiò in una grotta fra i monti e non scappò mai di la verso la luce. Poi fu la sola voce della formosa vergine che rimase. |
Dum copiae Porsenae Romam obsident, ingens erat in urbe frumenti et omnium ciborum inopia. Tunc Caius Mucius ad Etruscos devenire statuit et regem occidere. Ad castra hostium pervenerat, dum regis scriba stipendia militibus solvi. Scribae vestis similis regiis ornamentis erat Mucius ministrum pro rege necavit. Statim satellites percussorem comprehedentur et ad Porsenam duxerunt. Ubi coram rege fuit, sic Mucius dixit:splendidum scribae tui ornamentum dexteram meam in errorem induxit, quam ego nunc igne puniam.Ut talia verba dixit dexteram in proximum foculum iniecit et, dum ignis ardet, sine ullo lamento vulnera ustionis toleravit. | Mentre le milizie di Porsenna assediano Roma, nella città vi era un ingente mancanza di frumento e di ogni cibo. Allora Gaio Muzio decise di andare dagli etruschi e uccidere il re. Era giunto all’accampamento dei nemici mentre il segretario del re pagava gli stipendi ai soldati. L’abito del segretario era simile agli abbigliamenti del re e Muzio uccise il funzionario al posto del re. Immediatamente le guardie afferrarono l’uccisore e lo condussero da Porsenna. Non appena fu davanti al re, così disse Muzio:<<Lo splendido abito del tuo segretario indusse la mia mano destra in errore, che ora io punirò con il fuoco>>. Non appena disse tali parole, pose la mano destra nel vicinissimo braciere, mentre il fuoco ardeva, senza alcun lamento sopportò le ferite dell’ustione. |
Arion Corinthius fuit poeta et musicus, cuius cantu suavissimo non solum homines sed etiam ferae commovebantur et delectabantur. Cum ex patria sua in Sicilia venisset et ibi arte sua ingentem famam et quaestum consecutus esset, navem conscendit ut Corinthum regrederetur. Sed in maritimo cursu nautae illius navis eius divitias surripuerunt et ipsum in undas deicere statuerunt ut ibi morte opprimeretur. Tunc ille, priusquam deiceretur, sic nautas precatus est:" Vos precor ut ante perniciem meam suavem cantum meum audiatis".Cum nautae precibus eius cessissent, Arion in navis puppi stetit ut, more musicorum, vocem fidibus iungeret. Cum omnes tantam peritiam admirarentur et suavi cantu magnopere delectarentur, Arion repente se in undas deiecit et a nautis ibi desertus est. Tum nova res accidit. Nam delphinus, qui cantu attractus erat, Arioni dorsum subdidit et eum incolumen in terra Laconicam devexit. | Arione era un poeta e un musicista di Corinto, dal cui canto dolcissimo non solo gli esseri umani, ma anche le bestie erano colpiti e sedotti. Essendo venuto in Sicilia dalla sua patria e vendo ottenuto là enorme gloria e guadagni con la sua arte, si imbarcò affinchè tornasse a Corinto. Ma nel viaggio per mare i marinai di quella nave gli sottrassero le sue ricchezze e stabilirono di buttarlo tra le onde, perché venisse lì colto dalla morte. Così lui, prima che venisse buttato giù, così pregò i marinai: " Vi prego di udire il mio soave canto prima della mia rovina". Quando i marinai si arresero alle sue suppliche, Arione si mise in piedi sulla poppa della nave, per abbinare alla voce al suono della cetra, secondo l'uso dei musicisti. Quando tutti celebravano una tale enorme perizia e si rallegravano moltissimo del dolce canto, improvvisamente Arione si gettò fra le onde e venne abbandonato là dai marinai. Così successe un particolare avvenimento. Difatti, un delfino, che fu sedotto dal canto, collocò sul suo dorso Arione e lo riportò incolume nel suolo di Laconia. |
Roma interim crescit Albae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur eam sedem Tullus regiae capit ibique habitavit. Principes Albanorum in patres ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Seruilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; templumque ordini ab se aucto curiam fecit quae Hostilia usque ad patrum nostrorum aetatem appellata est. Et ut omnium ordinum viribus aliquid ex novo populo adiceretur equitum decem turmas ex Albanis legit, legiones et veteres eodem supplemento explevit et novas scripsit. | Con la devastazione di Alba, Roma cresce, il numero di cittadini si duplica. Il colle Celio fu aggiunto alla città e, per fosse abitato più frequentemente Tullo lo scelse come sede permanente della reggia. I principi albani Giuli, Servili, Quinzi, Gegani, Curiazi e Cleli nominò senatori, affinché pure quella parte dello Stato potesse crescere. Come sede riconosciuta per questa parte sociale che lui stesso aveva accresciuto di misura, creò la Curia, che continuava ad tenere il titolo di Curia Ostilia ancora ai tempi dei nostri padri. Poiché ogni classe potesse aumentare di numero grazie al nuovo popolo, elesse dieci plotoni di cavalieri, completò i ranghi delle antiche legioni e ne creò di nuove, sempre raccogliendo solamente dalle forze degli alleati. |
Tu quod me hortaris, ut animo sim magno et spem habeam recuperandae salutis, id velim sit eius modi, ut recte sperare possimus. Nunc miser quando tuas iam litteras accipiam? Quis ad me perferet? Quas ego exspectassem Brundisii, si esset licitum per nautas, qui tempestatem praetermittere noluerunt. Quod reliquum est, sustenta te, mea Terentia, ut potes honestissime. Viximus, floruimus: non vitium nostrum, sed virtus nostra nos afflixit; peccatum est nullum, nisi quod non una animam cum ornamentis amisimus; sed, si hoc fuit liberis nostris gratius, nos vivere, cetera, quamquam ferenda non sunt, feramus.Atqui ego, qui te confirmo, ipse me non possum. | Tu che mi esorti ad essere di grande animo e ad avere la speranza di riacquistare la salvezza, vorrei che le cose fossero tali affinché potessimo avere delle buone speranze. Ora io, infelice, quando riceverò ancora una tua lettera? Chi me la consegnerà? Io la aspetterei a Brindisi, se fosse possibile per i marinai, che non vollero lasciarsi sfuggire l’occasione. Per il resto, sostieniti, mia Terenzia, come puoi con molto decoro. Abbiamo vissuto, abbiamo avuto il nostro momento di gloria; ci abbatte non il nostro difetto ma la nostra virtù; non abbiamo commesso nulla se non il fatto che non perdemmo la vita insieme con gli ornamenti. Ma, se ciò fu maggiormente gradito ai nostri figli, noi sopportiamo di vivere le restanti situazioni, anche se non dovremmo sopportarle. E io, che ti rassicuro, io stesso non posso rassicurarmi. |
Est in Aegypto urbs, quam hecatompylos Thebas institutores cognominarunt , quod centum portis praedita est. In urbe, inter templa ingentia diversaque signa exprimentia Aegyptorum numinum imagines, obeliscos vidimus multos, aliosque iacentes et comminutos, quos antiqui reges montium venis excisos erectosque dis superis in religione dicaverunt. Est autem obeliscus exacutus lapis qui ad proceritatem consurgit excelsam et radii imagini similis est. Formarum autem undique innumeras notas incisas gerit, quas hieroglyphicas appellant.Nam antiqui Aegyptii non praestituto numero litterarum, sed volucrum, arborum, ferarumque formis expresserunt omnia quae mens concipere potest. Has formas reges in obeliscis sculpserunt: ita suae gloriae memoriam ad sequentes aetates tradiderunt. | In Egitto c’è una città, la quale i fondatori di Tebe nominarono ecatompoli poiché era fornita di cento porti. In città, tra numerosi templi e diverse rappresentazioni di divinità egizie, troviamo parecchi obelischi, certi giacenti e rovinati, che gli antichi re caduti e elevati ai piedi dei monti offrivano agli dei nella religione. C’è però un obelisco affilato, di pietra che pian piano si eleva all'altezza eccelsa ed è uguale ai raggi del sole. In più da qualsiasi luogo conduce incise le famosi ingenti forme, che nominano geroglifici. Difatti gli antichi egizi non per quantità di lettere,però rappresentarono le forme degli alberi e degli animali che la mente umana ha creato. I re incisero codeste forme negli obelischi: in questo modo affidarono la memoria della propria fama alle età seguenti. |
Cyrus, subacta Asia et universo Oriente in potestatem suam redacto, Scythis bellum movit. Erat Scytharum regina Tomyris, quae, non adventu hostium terria, eos flumen Oaxim transire permisit, sibi esse faciliorem pugnam intra terminos regni sui putans. Itaque Cyrus, traiectis copiis, cum aliquantum per Scythiam processisset, castra posuit. Deinde, simulato metu, refugiens, castra deseruit et vinum atque ea, quae epulis erant necessaria, relinquit.Cum id nuntiatum esset reginae, adulescentulum filium suum ut Persas insequeretur cum tertia parte copiarum misit. Adulescens, cum in castra Cyri deserta venisset, neglectis hostibus, cum suis militibus se vino et epulis dedit: sic pris ebrietate quam bello Scythe victi sunt. Nam Cyrus, his rebus cognitis, noctu reversus, eos ebrios oppressit omnesque cum reginae filio interfecit. | Ciro, dopo aver sottomesso l’asia e aver ridotto in (suo) potere tutto l’oriente, muove guerra agli Sciti. A quel tempo la regina di Scizia era Tamiri, che non si era spaventata come di solito accade alle donne per l’arrivo dei nemici, pur potendo impedire loro il passaggio del fiume Oasse (il Don), permise il passaggio (lett.: permise di passare), poiché pensava sia che sarebbe stata più facile la battaglia nei confini del suo regno sia che sarebbe stata più difficile la fuga per i nemici a causa dell’ostacolo costituito dal fiume. E così Ciro, dopo aver fatto passare, poiché era andato alquanto avanti nella Scizia, pose l’accampamento. Poi il giorno dopo, simulata paura, come se avessi lasciato l’accampamento per fuggire (lett.: fuggendo), così lasciò una certa quantità di vino e tutti gli alimenti (lett.: tutte le cose) necessari per un banchetto. Quando questo venne annunciato alla regina, invia il giovane figlio insieme alla terza parte dell’esercito perché lo(=Ciro) inseguissero. Quando si arrivò all’accampamento di Ciro, il giovane, inesperto dell’arte militare, come se andasse ad un banchetto e non ad una battaglia, dimenticati i nemici, consente che i barbari, non abituati al vino, si ubriachino (lett.: si riempiano di vino), e sono vinti prima dall’ubriachezza che dal combattimento. Infatti, sapute queste cose, Ciro, tornato durante la notte, elimina gli ubriachi (lett.: i feriti) e uccide tutti gli Sciti insieme al figlio della regina. |
Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, cum reges magni bello domiti sunt atque nationes ferae et populi ingentes vi subacti sunt, cum Carthago, aemula imperi Romani, funditus interiit, saevire in Romanos fortuna ac miscere omnia coepit. Itaque pecuniae imperiique cupiditas animis blandiebatur; id maxime pernicies civibus fuit et omnium malorum materies. Cives enim, qui antea labores, periculas, res dubias atque aspera facile toleraverant, otium divitiasque petebant.Sic avaritiam fidem probitatemque subervertit ; pro his virtutibus magna vitia orta sunt. Nunc ergo rem publicam labentem atque cadentem omnes videmus : cives deos neglegentes, superbia et crudelitatem utuntur omnia venalia putant. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit: aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habent, amicitias ex commodo aestimant, bonum vultum ostendunt sed animum pravum celant. Haec vitia paulatim aucta sunti, postea ubi contagio, quasi pestilentia esset, plerosque invasit, civitate immutata, imperium quoque, quod antea omnes iustissimum atque optimum arbitrabantur crudele intolerandumque factum est. | Quando lo stato crebbe con la fatica e la giustizia, poiché grandi re furono sconfitti in guerra e nazioni straniere e grandi popoli furono piegati con la forza, poiché Cartagine, nemica dello stato romano, fu distrutta dalle fondamenta, la sorte iniziò ad infierire contro i Romani e turbò ogni cosa. Dunque il desiderio di denaro e di potere lusingava gli animi; ciò fu una grandissima disgrazia per i cittadini e origine di ogni male. I cittadini infatti, che prima avevano tollerato fatiche, pericoli, avvenimenti incerti e difficoltà facilmente, adesso chiedevano tempo libero e ricchezze. Così l’avidità sopravanzò la fede e l’integrità; a posto di queste virtù nacquero grandi vizi. Ora di conseguenza tutti vediamo la repubblica che degenera e che cade a picco: i cittadini, dimentichi degli dei, si servono della tracotanza e della crudeltà, ritengono ogni cosa corruttibile. L’ambizione spinge molti mortali a diventare falsi: hanno una cosa chiusa nel loro petto e un'altra evidente sulla lingua, valutano le amicizie in base al tornaconto personale, mostrano un volto buono e nascondono una animo cattivo. Questi vizi a poco a poco sono aumentati. In seguito il contagio, come se fosse un virus, si impadronì della maggior parte delle persone, cambiata la cittadinanza, anche il comando, che prima tutti giudicavano giustissimo e ottimo, è diventato crudele ed insopportabile. |
Eo cum de improviso celeriusque omni opinione venisset, Remi, qui proximi Galliae ex Belgis sunt, ad eum legatos Iccium et Andecumborium primos civitatis miserunt, qui dicerent se suaque omnia in fidem atque in potestatem populi Romani permittere, neque se cum reliquis Belgis consensisse neque contra populum Romanum omnino coniurasse, paratosque esse et obsides dare et imperata facere et oppidis recipere et frumento ceterisque rebus iuvare; reliquos omnes Belgas in armis esse Germanosque, qui cis Rhenum incolant, sese cum his coniunxisse, tantumque esse eorum omnium furorem, ut ne Suessiones quidem fratres consanguineosque suos, qui eodem iure et isdem legibus utantur, unum imperium unumque magistratum cum ipsis habeant, deterrere potuerint, quin cum iis consentirent. | Essendo arrivato là all'improvviso e più veloce di ogni previsione, i Remi, che tra i Belgi sono i vicini della Gallia, gli mandarono Iccio ed Andecumbori ocome ambasciatori , capi della patria, a dire che mettevano se stessi e tutti i loro averi nella parola e nel potere del popolo romano e che loro non si erano accordati con gli altri Belgi né si erano affatto alleati contro il popolo romano, che erano pronti a dare ostaggi, obbedire agli ordini, accoglierli nelle città e aiutarli con frumento ed altri beni; che gli altri Belgi erano in armi ed i Germani che abitavano al di là del Reno si erano riuniti con essi e così forte era l'impeto di tutti quelli che non avevano potuto distogliere neppure i Sucessoni loro fratelli e consanguinei, che godono dello stesso diritto e delle stesse leggi ed hanno con loro un unico governo ed un'unica magistratura, dal collegarsi con essi. |
Ad Pyrrhum, bellum contra Romanos gesturum, venit olim cineas et quaesivit quid eo bello sibi proponeret. "Victis Romanis," respondit Pyrrhus, "facile totius Italie domini erimus". "At postea", quaesivit Cineas, "quid agemus?". "Apud Italiam sicilia est, haus difficilis praeda". "At postea?". "Siciliae Africa manus porrigit: facilis igitur traiectus est, nec arduum erit eam quoque occupare". "At postae?". "Postae occupabimus Hispaniam, mox Galliam, deinde Germaniam, ac deinceps ceteras orbis terrarum regoines"."At postea?". "Tum denique domum remeabimus, vitamque cum amicis inter convivia degemus"."Cur igitur", quaesivit tunc Cineas, "iam nunc id facere non possumus, sine sanguinis profusione, cum res sis et divitiis abundemus, nec sodalium coetus nobis desint?". | Da Pirro che stava svolgendo guerra contro i Romani, arrivò un giorno Cinea e domandò cosa si proponesse per quella guerra: "sconfitti i romani", ribatté Pirro, "saremo tranquillamente i signori dell’intera Italia". "Ma dopo" domandò Cinea "che cosa faremo?". "Vicino l' Italia c’è la Sicilia, non difficile preda". "E poi?". "Dalla Sicilia metteremo la mano in Africa: infatti è semplice il cammino e non sarà arduo espugnarla". "E poi?". "Poi occuperemo la Spagna, dopo la Gallia, dopo la Germania e le diverse zone della terra"." E dopo?". "Quindi andremo finalmente in patria, e trascorreremo l’esistenza con i compagni fra i conviti. "Quindi come mai", domandò ancora Cinea, "già adesso non possiamo farlo, senza diffusione di sangue, essendo tu re e abbondando di ricchezze, non stando lontano da noi una moltitudine di amici?" |
Bello Punico secundo Hannibal, postquam ter Romanos vicerat apud Ticinum, apud Trebiam atque apud Trasumenum lacum, ad Apuliam contendit. Ibi Carthaginiensium dux rursus cum Romanis conflixit et apud cannas insignem cladem Romanorum exercitui intulit, quia ipse consul Aemilius Paulus in acie mortem invenit. Nam confecto proelio, Cneus Lentulus, tribunus militum, dum equo fugit, consulem cruore oppletum super saxum sedentem viderat atque ei dixerat:" L.Aemili, equum meum cape et fuga salutem pete! Noli funestam hanc pugnam facere morte consulis!" Tribuno consul responderat: "Ego, Cn. Corneli, hic manebo ut officio meo satisfaciam. Tu abi et admone publice Romanorum patres ut urbem firmis praesidiis muniant, ne Roma ab Hannibale deleatur". Paulo post consul, ab hostibus undique circumventus, strenue pugnans cecidit. | Durante la seconda guerra punica annibale, dopo che aveva vinto i Romani per tre volte persso il Ticino, presso il Trebbia e presso il lago Trasimeno, marciò velocemente verso la Puglia. Là il comandante dei Cartaginesi combattè nuovamente contro i Romani e inflisse una sconfitta memorabile all'esercito dei Romani presso Canne, poichè lo stesso console Emilio Paolo trovò la morte in battaglia. Infatti conclusa la battaglia, Gneo Lentulo, tribuno dei soldati, mentre fuggiva a cavallo, aveva visto il console che sedeva ricoperto di sangue sopra ad un masso, e gli aveva detto: "Lucio Emilio, prendi il mio cavallo e cerca la salvezza con la fuga. Non volere che questa battaglia sia vista funesta per la morte del console!" Il console aveva risposto al tribuno: "Io, Gneo Cornelio, rimarrò qui per adempiere completamente al mio mandato. Tu vattene invece, e avvisa pubblicamente i senatori dei Romani affinchè proteggano la città con difese resistenti, e Roma non venga distrutta da Annibale. Poco dopo, il console, circondato da ogni parte dai nemici, morì combattendo valorosamente. |
1) Xerxes adeo angusto mari conflixit ut eius multitudo navium explicari non potuerit.2) Alcibiades erat ea sagacitate ut decipi non posset.3) Postea secutus Gallos Camillus ita cecidit, ut et aurum, quod his datum fuerat, et omnia, quae ceperant, militaria signa revocaret.4) Nemo adeo ferus est, ut non mitiscere possit.5) Io eo proelio tanto plus virtute valuerunt Athenienses, ut decemplicem numerum hostium profligaverint.6) Famae celebris Hadrianus tam cupidus fuit, ut libros vitae suae scriptos ase libertis suis litteratis dederit, iubens ut eos suis nominibus publicarent.7) Themistoclis vitia ineuntis adulescentiae magnis sunt emendata virtutibus, adeo ut anteferatur huic nemo, pauci pares putentur.8) Tanta oblectatio est in eloquentia, ut omnium hominum aures capiantur.9) In Miltiade erat tanta humanitas, ut nemo tam humilis esset, cui non ad eum aditus pateret.10) Hannibal adeo gravi morbo adficitur oculorum, ut postera numquam dextro bene usus sit.11) Epaminomdas fuit disertus, ut nemo ei Thebanus par esset eloquentiā.12) Tanta est necessitas virtutis generi humano a natura data, ut ea vis omnia blandimenta voluptatis vicerit.13) Inter duas acies tantum erat relictum spatii, ut satis esset ad concursum utriusque exercitus.14) Cohortes tanta vi in Pompei equites impetum fecerunt, ut eorum nemo consisteret.15) Nemo tam ferus fuit ut Alcibiadis casus non lacrimaret.16) In eum locum res deducta est ut, nisi qui deus vel casus aliquis subvenerit, salvi esse nequeamus.17) Iphicrates Atheniensius fuit tali dux ut cum primis aetatis suae compararetur.18) Caeser in colle medio triplicem aciem instruxit ita ut totum montem hominibus compleret.19) Romanorum leges tanta prudentia scriptae sunt, ut nemo adhuc eas superare potuerit.20) Tanta visest honesti, ut speciem utilitati oscure.21) Traianus rem publicam ita administravit, ut omnibus principi bus merito praeferatur.22) Tantus timor omnem exercitum occupavit, ut omnium mentes animosque perturbaret | 1) Serse combatté in un tratto di mare così stretto mare a tal punto che la moltitudine delle sue navi non poté essere disposta in battaglia.2) Alcibiade era di una astuzia da non poter essere ingannato3) Dopo aver inseguito i Galli, Camillo li uccise così da recuperare l’oro che era stato dato loro. tutto ciò che avevano preso e le insegne militari .4) Nessuno è così spietato da non potersi mitigare5) In quella battaglia, gli Ateniesi valsero tanto più in coraggio da sconfiggere un numero di nemici dieci volte maggiore.6) Il celebre Adriano fu talmente bramoso di fama che dette i libri della sua vita scritti da lui ai suoi schiavi affrancati letterati, ordinando loro di renderli pubblici sotto il suo nome.7) I difetti della prima giovinezza di Temistocle sono compensati da grandi virtù al punto che nessuno gli è anteposto e pochi sono considerati pari a lui8) Esiste tanto diletto nell’eloquenza da catturare le orecchie di tutti gli uomini9) In Milziade c’era così tanta benevolenza che nessuno era tanto umile da non avere accesso a lui.10) Annibale era talmente affetto da una malattia agli occhi che in seguito non poté più fare un buon uso dell’occhio destro11) Epaminonda era talmente convincente che nessun Tebano lo uguagliava nell’eloquenza12) Tanto grande è il bisogno di coraggio dato dalla natura al genere umano, che tale forza vince le lusinghe de piacere13) Fra le due schiere restava un così ampio lo spazio, daessere sufficiente per il combattimento di entrambi gli eserciti.14) Le coorti assalirono con tanta forza i cavalieri di Pompeo che nessuno di loro resistette.15) Nessuno fu così crudele da non compiangere le calamità di Alcibiade.16) La situazione era talmente degradata a tal punto da non aver salva la vita se non fosse intervenuto un dio o il fato.17) L’ateniese Ificrate fu un tale comandante da essere paragonato ai più insigni [comandanti] del suo tempo.18) Cesare dispose la triplice schiera a metà del colle così da completare tutta l’altura con gli uomini19) Le leggi romane sono state scritte con tanta saggezza che nessuno, fino ad ora, ha potuto superarle20) La forza dell’onesto è così grande che oscurare l’aspetto dell’utile (è tanto grande da oscurare).21) Traiano governò in modo tale per il merito fu preferito a tutti i principi22) Tanta paura si impadronì dell’esercito da turbare tutte le menti e gli animi. |
Socratem, qui per multos annos cives suos sapientiam docuit ipseque sanctissime vixit, Apollinis oraculum collaudavit, eum sapientissimum praedicans clara illa voce quam omnes discimus: “Mortalium unus Socrates vere sapit”. Ex quo magna in illum invidia conflata est quod stultitiae accusabat eos, qui de se superbe et magnifice sentiebant, quorum in numero Anytus fuit. Hic enim, cum eum pigeret a Socrate increpari, Melito persuasit ut eum apud iudices accusaret quod iuvenes impietatem doceret et corrumperet.Quem non puduit tam turpia incitamenta sequi. Haec ergo accusatio fuit: “Iura et leges patriae violat Socrates, negans esse illos deos, quos ex institutis maiorum sucepit civica, alia vero daemonia esse docens”. Scorate igitur, damnatus capite, in vincula coniectus est, ubi, cum multa et praeclara de animo disseruisset, cicutam bibere iussus est. Athenienses postea eius facti tantum paenituit ut Melitum ipsum mortem punirent et Socratem aenea statua donarent. | L’oracolo di Apollo lodò Socrate, che per tantissimi anni insegnò la filosofia ai suoi cittadini e visse egli stesso onestamente, definendolo il più sapiente con quella famosa frase che tutti conosciamo: “Fra I mortali solo Socrate conosce veramente”. Da ciò l’invidia fu maturata verso di lui poiché accusava di stoltezza coloro che si consideravano con superbia e magnificenza, tra i quali ci fu Anito. Questo infatti, vergognandosi di essere rimproverato da Socrate, persuase Melito ad accusarlo davanti ai giudici poiché insegnava empietà ai giovani e li corrompeva. Questo non si vergognò di seguire queste esortazioni tanto malvagie. Dunque questa fu l’accusa: “Socrate viola i diritti e le leggi della patria, negando l’esistenza degli dei, quali la civiltà apprese dalle istituzioni degli avi, insegnando che in verità ci sono altri demoni”. Dunque Socrate fu subito condannato a morte, trascinato in carcere, dove gli fu ordinato di bere la cicuta, avendo parlato di molte e importanti cose sull'anima. Gli Ateniesi dopo si pentirono di quell’azione tanto da punire Melito stesso con la morte e dedicare una statua di bronzo a Socrate. |
In Europa multae sunt insulae et paeninsulae. Inter insulas numeramus Britanniam, Siciliam, Sardiniam,Corsicam; inter paeninsulas Italiam, Hispaniam seu Hiberiam, Graeciam. Orae Italiae longae et saepe montuosae sunt.Amoenae tamen sunt et multas delicias incolis et advenis praebent. Quare quotannis advenae in Italiam libenter adveniunt et oras nostras laudant ac celebrant. In Italia multas vineas et oleas agricolae serunt et maxima cum peritia colunt.Silvae tamen non latae et densae sunt sicut in Germania vel in Gallia. Praeter Siciliam et Sardiniam attingut Italiam nonnulae insulae, minus vastae, sed tamen amoenae et praeclarae, sicut Ilva, Prochyta, Capreae. In insulam Capreas ab externis terris conveniunt advenae: nam iucundas et miras insulae delicias et incolarum laetam naturam diligunt. | In Europa vi sono parecchie isole e penisole. Tra le isole contiamo Britannia, Sicilia, Sardegna, Corsica,fra le penisole Italia, Spagna o Iberia,Grecia. I litorali dell'Italia sono estesi e molte volte montuosi. Comunque sono gradevoli e concedono molti piaceri agli abitanti e agli forestieri. Per cui ogni anno i forestieri arrivano in Italia con gioia e elogiano e commemorano le nostre rive.In Italia i contadini coltivano parecchi viti e ulivi e seminano con enorme abilità.Le selve però non sono estese e folte come in Germania o in Gallia. In più alla Sicilia e la Sardegna sfiorano l'Italia qualche isola,meno estesa,comunque gradevoli e meravigliose come l'Elba,Procida,Capri. Nell'isola di Capri i forestieri arrivano da terre distanti: difatti stimano le gradevoli e sublimi piaceri dell'isola e la gradevole personalità degli abitanti. |
Priverno capto interfectisque iis, qui id oppidum ad rebellandum incitaverant, senatus indignatione accensus consilium agitabat quidnam sibi de reliquis quoque Privernatibus esset faciendum. Ceterum Privernates, cum auxilium unicum in precibus restare animadverterent, ingenui et Italici sanguinis oblivisci non potuerunt: princeps enim eorum in curia interrogatus quam poenam mererentur, respondit: "Quam merentur qui se dignos libertate iudicant". His verbis exasperatos patrum animos inflammaverat.Sed Plautius consul, favens Privernatium causae, quaesivit qualem cum eis Romani pacem habituri essent inpunitate donata. At is costantissimo vultu "Si bonam dederitis" inquit" perpetuam, si malam, non diuturnam”. Qua voce perfectum est ut victis non solum venia, sed etiam ius et beneficium nostrae civitatis daretur. | Espugnata Priverno e trucidati coloro i quali avevano istigato la città alla rivolta, il senato, acceso di rabbia, discuteva cosa doveva farne dei resttanti Privernati. Da parte loro, i Privernati poichè capirono che l'unica aiuto rimaneva nelle preghiere, non riuscivano a tacere il loro sangue e la loro ingenuità tipica degli italici: infatti, il loro capo, interrogato nella curia su quale pena meritassero, rispose: "La pena che meritano coloro i quali si ritengono degni di libertà". Con queste parole, aveva infiammato gli animi arrabbaiati dei senatori. Ma il console Plauzio, essendo favorevole alla causa dei Privernati, domandò quale pace i Romani avrebbero potuto fare con loro, se fosse stata donata l’impunità. Ma egli con volto fierissimo disse: “Se ce la darete buona, per sempre, se cattiva, non lunga.” Con questo discorso fu ottenuto che ai vinti fu concesso non solo il perdono, ma anche il diritto e il beneficio della nostra cittadinanza. |
A piscatoribus in Milesia regione everriculum trahentibus quidam iactum emerat. Extracta deinde magni ponderis aurea mensa, orta controversia est,cum illi piscium se capturam vendidisse adfirmarent, hic fortunam ductus se emisse diceret. Ea igitur contentio propter novitatem rei et magnitudinem pecuniae ad populum delata est, placuitque Apollinem Delphicum consuli,cuinam adiudicari mensam deberet. Deus respondit illi esse dandam qui sapientia ceteris praestaret.Tum Milesii, omnibus consentientibus, Thaleti mensam dederunt; hic cessit eam Bianti, Bias Pittaco, is protinus alii, deincepsque per omnium septem sapientium orbem postremo ad Solonem pervenit, qui et titulum amplissimae sapientiae et praemium ad ipsum Apollinem transtulit. | Nella zona di Mileto un certo aveva acquistato una rete abbandonata dai pescatori mentre la tiravano su. Allora essendo uscita una mensa d’oro di enorme peso, nacque una disputa, perché questi dicevano di aver venduto la cattura dei pesci, lui, portato, reputava che egli aveva comprato la pecunia. Quindi la questione, per l’originalità della cosa e la moltitudine del denaro, venne domandato alla popolazione, e sembrò corretto che venisse interrogato Apollo Delfico a chi mai dovesse essere data la mensa. Il dio rispose che doveva essere data a chi batteva gli altri in sapienza. Quindi gli abitanti di Mileto, tutti favorevoli, dettero la tavola a Talete; questo la donò a Biante, Biante a Pittaco, codesti di nuovo ad un altro, e di seguito tramite il giro di tutti e sette i sapienti alla fine giunse a Solone, che diede l’attestato della più grande sapienza e il premio al medesimo Apollo. |
Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit. Infantiam amisimus, deinde pueritiam, deinde adulescentiam. Usque ad hesternum quidquid transit temporis perit; hunc ipsum quem agimus diem cum morte dividimus. Quemadmodum clepsydram non extremum stillicidium exhaurit, sed quidquid ante defluxit, sic ultima hora qua esse desinimus, non sola mortem facit sed sola consummat; tunc ad illam pervenimus, sed diu venimus.Haec cum descripsisses quo soles ore, semper quidem magnus, numquam tamen acrior quam ubi veritati commodas verba, dixisti: mors non una venit, sed quae rapit ultima mors est. Malo te legas quam epistulam meam; apparebit enim tibi hanc quam timemus mortem extremam esse, non solam. | Ogni giorno moriamo; infatti una parte della vita [ci] è sottratta ogni giorno e appunto anche quando cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Qualsiasi attimo (lett. Cosa di tempo) trascorso fino a ieri, è perduto; dividiamo questo stesso giorno che viviamo con la morte. Come l’ultima goccia non esaurisce la clessidra ma quella defluita prima, così l’ultima ora in cui cessiamo di esistere, non provoca da sola la morte, ma da sola la compie; noi vi giungiamo in quel momento, ma da tempo [vi] siamo diretti. E dopo aver delineato questi concetti con la tua solita eloquenza, sempre eccelso [e] tuttavia nai più penetrante di quando usi le parole per la verità, hai detto: la morte non viene una volta sola, ma quella che ci porta via è l’ultima morte. Preferisco che tu legga te stesso, invece della mia lettera; infatti ti sarà chiaro che questa che temiamo è l’ultima morte, non la sola. |
Noviodonum oppidum, in Haeduorum regno, ad ripas Ligeris opportuno loco erat.huc obsides Galliae, frumentum, pecunia impedimentaqe a Caesare gerebantur atque magnum numerum equorum belli causa (per la guerra) mittebantur.Novioduni reges Eporedorix Viridomarusque, viri magnae prudentiae atque virtutis, Caesaris audaciam non ignorabant sed oppidi animositatem cognoscebant; ita ab Eporedorige apud civitatem oratio habetur et Noviduni virtutes antiquae memorantur.post regis sermonem deos civitas orat populumque ad pugnam reges incitant his (queste) verbis: <<Romanis militibus gloriosum nomen est Caesarisque audacia a populis Galliae memoratur, sed libertas oppidi Novioduni nostrum auxilium, nostrum munus, nostram curam quaerit.ad miram victoriam vel honestam ruinam, reges, nostros milites ducete (conducete)>>.itaque ex portis Novioduni populus cum armis equisque procedit atque Caesar legionibus tuba signum dat ac proelium a Romanorum copiis committitur. | La fortezza di Novioduno,nel regno degli Edui, era posta in luogo favorevole sulle rive della Loira. Qui erano portati da Cesare tutti gli ostaggi della Gallia, il frumento, il denaro pubblico, i bagagli (dell'esercito) ed aveva mandato un gran numero di cavalli a causa della guerra.I re di Novioduno, Eporedorige e Viridomaro,uomini di grande prudenza e valore, non ignoravano l'audacia di cesare ma conoscevano l'animosità della città; pertanto da Epordorige fu tenuto un discorso presso la cittadinanza e furono ricordate le antiche virtù di Novioduno.Dopo il discorso del re la cittadinanza prega gli dei e i re incitano il popolo alla battaglia con queste parole: "i soldati romani hanno (dativo di possesso) un nome glorioso e l'audacia di Cesare è ricordata dai popoli della Gallia, ma la libertà della città di Novioduno chiede il nostro aiuto, il nostro impegno e la nostra cura. Conducete, o re, i nostri soldati a una meravigliosa vittoria o a un'onesta rovina" pertanto dai porti di Novidunio il popolo avanza con armi e cavalli e Cesare alle legioni dà con la tuba il segnale (del combattimento) e la battaglia è attaccata dalle truppe romane. |
Ulixes cum ab Ilio in patriam Ithacam rediret, tempestate ad Ciconas est delatus, quorum oppidum Ismarum expugnavit praedamque sociis distribuit. Inde ad Lotophagos, homines minime malos, qui loton ex foliis florem procreatum edebant, idque cibi genus tantam suavitatem praestabat, ut, qui gustabant, oblivionem caperent domum reditionis. Ad eos socii duo missi ab Ulixe cum gustarent herbas ab eis datas, ad naves obliti sunt reverti, quos vinctos ipse reduxit. | Ulisse, mentre ritornava da Troia nella patria Itaca, fu spinto da una tempesta verso i Ciconi, dei quali distrusse la città Ismaro e distribuì il bottino ai compagni. Dal quel luogo giunse dai Lotofagi, uomini per nulla cattivi, che mangiavano il loto, il fiore nato dalle foglie, e la nuova nascita di cibo garantiva tanta bellezza, che, coloro che lo gustavano, si scordavano il ritorno in patria. Furono mandati da Ulisse a loro due compagni e mentre gustavano le erbe che gli furono date, non ritornarono a causa dell’oblio delle navi, che in seguito Ulisse legò e ricondusse alle navi. |
Olim Minos, Cretensium rex, cum copiis suis litora Argolidis, regionis Graeciae, vastabat atque urbem Megaram obsidebat. Megarensium rex tum erat Nisus, qui in capite inter canos capillos crinem purpureum habebat, perpetuitatis regni sui tutelam. Nam Apollinis oraculum regi hoc responsum dederat: “Donec, Nise, in capite tuo crinis purpureus manebit, tu regnum tuum servabis”. Sed Scylla, Nisi filia, Minoem, hostium regem, vehementer amabat atque eius victoriam exoptabat: itaque patrem patriamque ob amorem prodit.Crinem patri in somno recidit, postea per hostium castra ad Minois tabernaculum currit ac regi dicit: “Ego, Scylla, Nisi filia, tibi amoris mei pignus ac patriam meam trado; nam si crinem purpureum patris mei habebis, Megarensium copias vinces atque urbem expugnabis”. Sed horrendum scelus animum regis turbat. Asperis verbis Minos Scyllae proditionem vituperat et virginem e Cretensium castris expellit; postea cum Megarensibus bellum componit et ad Cretam revertit. Scylla, quia iram ac vindictam patris timebat, in mare se precipitat, sed miserae virginis fortuna ad misericordiam movet deos, qui in cirem, avem marinam fulvis pennis, Scyllam convertunt. | Un tempo Minosse, re dei Cretesi, con le sue truppe devastava le coste dell'Argolide, regione della Grecia, e assediava la città di Megara. Re dei Megaresi allora era Niso, che aveva in testa tra i capelli bianchi un capello rossiccio, garanzia della continuità del suo regno. Infatti l'oracolo di Apollo aveva dato questo responso al re: “Niso, finché rimarrà sulla tua testa il capello rosso, conserverai il tuo regno”. Ma Scilla, figlia di Niso, amava molto Minosse, re dei nemici, e desiderava la sua vittoria: così tradisce il padre e la patria per amore. Taglia il capello del padre durante il sonno, poi corre attraverso l'accampamento dei nemici alla tenda di Minosse e dice al re: “Io, Scilla, figlia di Niso, ti consegno un pegno del mio amore la mia patria; infatti se avrai il capello rosso di mio padre, vincerai le truppe dei Megaresi ed espugnerai la città”. Ma l'orrendo delitto turba l'animo del re. Minosse rimprovera con parole aspre il tradimento di Scilla e caccia la giovane dall'accampamento dei Cretesi; poi fa la pace con i Megaresi e torna a Creta. Scilla, poiché temeva l'ira e la vendetta del padre, si getta nel mare, ma la sorte della misera giovane muove alla misericordia gli dei, che trasformano Scilla in un airone, uccello marino con le penne rosse. |
Maecenas eques Romanus fuit Augusti amicus cuius animum ardentem ac nobilem saepe ad bonum opportune et callide flexit. Interdum principem etiam a malis consiliis devocavit. Olim Augustus cum in tribunali ut iudex sederet multos homines capitis damnavit. Maecenas re cognita ad tribunal accurrit et ad imperatorem appropinquare temptavit sed frustra cum permagnus populi concursus esset. Itaque imperavit ut tabella sibi ferretur ubi haec verba calamo exaravit: "Surge tandem carnifex!" tabellam obsignavit et effecit ut Augusto traderetur.Augustus cum tabellam legit statim ius dicere cessavit ac neminem capitis amplius damnavit. | Mecenate cavaliere romano, fu amico di Augusto, e il suo spirito ardente e nobile molte volte lo diresse in modo furbo ed adeguato al bene. A volte distolse l'imperatore pure dai cattivi consigli. Un giorno Augusto quando sedeva in tribunale in qualità di giudice, condannò a morte parecchi uomini. Mecenate, appresa la vicenda, si diresse verso il tribunale e cercò di accostarsi all'imperatore ma vanamente, poiché c'era grande tumulto della popolazione. Così comandò che gli venisse consegnata una tavoletta ove scrisse con la penna codesti vocaboli:" Sorge infine il carnefice!", chiuse la lettera e fece si che venisse data ad Augusto. Augusto, mentre lesse la tavoletta di legno, immediatamente finí di amministrare la giustizia e non condannò più nessuno a morte. |
Antiqui non sine causa et sapientissime rusticos Romanos urbanis praeponebant. Nam cives desidiosiores agricolis putabant. Itaque annum diviserunt ita ut nonis modo diebus urbanas res usurparent et reliquis septem rura diligentius colerent. Donec ita vixerunt, agros servaverunt et ipsi firmiora corpora habuerunt. At nunc Romani saepissime falces aratraque relinquunt et manus movent in theatro ac circo libentius quam in segetibus ac vineis. Ideo hodie frumentum importamus maxime ex Africa et Sardinia, et navibus vindemian colligimus ex longiquis insulis. | Gli antichi non senza motivo e molto sapientemente preferivano i Romani di campagna a quelli di città. Reputavano infatti i cittadini più pigri dei contadini. Pertanto divisero l'anno in modo tale che per soli dieci giorni si occupassero delle cose di città e gli altri sette coltivassero più diligentemente i campi. Finché vissero così, mantennero i campi ed essi stessi ebbero corpi più fermi. Ma ora i Romani molto spesso lasciano le falci e gli aratri e mettono mano al teatro e al circo più volentieri che alle messi e alle vigne. Perciò oggi importiamo frumento soprattutto da Africa e Sardegna, e facciamo la vendemmia con le navi da isole lontane. |
Pisistratus, cum adulescens quidam amore fìliae eius virginis accensus in publico obviam sibi factam osculatus esset, hortante uxore ut ab eo capitale supplicium sumeret, respondit: "Si eos, qui nos amant, interficiemus, quid eis faciemus, quibus odio sumus?". Minime digna vox cui adiciatur eam ex tyranni ore manasse. In hunc modum fìliae iniuriam tulit, suam multo laudabilius. A Thrasippo amico inter cenam sine fine convicio laceratus ita et animum et vocem ab ira cohibuit, ut putares satellitem a tyranno male audire.Abeuntem quoque, veritus ne propter metum maturius se convivio subtrahéret, invitatione familiari coepit retinere. Thrasippus, concitatae temulentiae impetu evectus, os eius sputo respersit nec tamen in vindictam sui valuit accendere. Me vero etiam filios suos violatae patris maiestati subvenire cupientis retraxit. Posteroque die, Thrasippo supplicium a se voluntaria morte exigere volente, venit ad eum dataque fide in eodem gradu amicitiae mansurum, ab incepto revocavit. Si nihil aliud dignum honore memoriae gessisset, his tamen factis abunde se posteritati commendasset. | Pisistrato, avendo un certo giovane, acceso da amore per la sua figlia vergine, baciato lei, fattaglisi incontro in pubblico, esortandolo la moglie a imporgli la pena di morte, rispose: "Se uccideremo quelli che ci amano, che cosa faremo a quelli ai quali siamo in odio?". Voce per niente degna (di lui), cui si aggiunga che essa era uscita dalla bocca di un tiranno. In questo modo tollerò l'offesa della figlia, molto più lodevolmente la sua. Durante una cena, torturato dal rimprovero senza fine da parte dell'amico Trisippo, così trattenne dall'ira sia l'animo sia la voce, come penseresti che una guardia sia biasimata da un tiranno. Temendo che per timore troppo presto si sottraesse alla cena, cominciò anche a trattenere in modo familiare lui che se ne andava. Trasippo, trasportato dall'impeto di una concitata ubriachezza, spruzzò il suo viso con uno sputo né tuttavia valse ad aizzarlo alla vendetta contro di lui. Quello anzi trattenne anche i suoi figli che desideravano rimediare alla violata maestà del padre. Il giorno dopo, volendo Trasippo esigere da sé la pena con una morte volontaria, andò da lui e datagli la garanzia che sarebbe rimasto nel medesimo grado di amicizia, lo distolse dal proposito. Se non avesse compiuto nient'altro di degno dell'onore della memoria, tuttavia per questi fatti abbondantemente avrebbe affidato se stesso alla posterità. |
Erat Sertorio cerva candida eximiae pulchritudinis,quae ei magno usui fuit ut obsequentiores haberet milites. Tradunt Sertorium cervam assuefecisse eum audire cum eam vocabat et seuqui cum procedebat. Dianae donum eam esse omnibus declaravit seque ab ea moneri quae facere deberet. Cum durius imperaret, se a cerva monitum esse praedicabat, statimque libentes milites parebant. Cerva in hostium incursione amissa est ac eam mortem occubuisse creditum est; id Sertorius acerrime toleravit.Multis tamen post diebus a milite inventa est. Sertorius eum qui id nuntiabat, tacere iussit cervamque repente in locum, ubi ius reddebat, immitti. Is, postaquam vultu hilari in publicum processerat, dixit sibi in somno apparuisse cervam, quae mortem occubuerat et nunc ab ipsum remeabat. Tunc ex pacto emissa est ex recessu cerva quae, cum Sertorium conspexisset, laeto saltu ad tribunal venit ac devteram ducis qui sedebat ore lambit: unde clamor erupit exstititque omnium admiratio. | Sertorio aveva una cerva candida di straordinaria bellezza, la quale fu a lui molto utile affinchè avesse soldati più obbedienti. Raccontano che Sertorio avesse abituato la cerva ad obbedirlo quando la chiamava e a seguirlo quando camminava. Dichiarava a tutti che questa fosse un dono di Diana e che da essa gli era suggerito ciò che dovesse fare. Quando dava ordini più duramente ripeteva di essere stato esortato dalla cerva e immediatamente i soldati compiaciuti obbedivano. Durante un'incursione dei nemici, la cerva si perse e si credeva che fosse morta. Sertorio sopportò questo duramente. Tuttavia dopo molti giorni fu ritrovata da un soldato. Sertorio ordinò a quello che diceva questo, di tacere e che la cerva fosse portata immediatamente nel luogo dove egli amministrava la giustizia. Questo dopo che era avanzato in pubblico con il volto sereno, disse che gli era apparsa nel sonno la cerva, la quale era morta e ora sarebbe tornata da lui. Allora, secondo il patto, dal luogo nascosto fu fatta uscire la cerva che dopo aver visto Sertorio con un allegro balzo venne al tribunale e leccò con la bocca la mano destra del generale che sedeva: da ciò scoppiò il clamore e nacque l'ammirazione di tutti. |
Lucretia, Collatini uxor, maesta quia a Sexto Tarquinio stuprata erat, nuntium Romam ad patrem Ardeamque ad virum misit, ut cum singulis fidelibus amicis adirent, quod res atrox facta erat. Sp. Licretius cum P. Valerio, Conlatinus cum L. Bruto venit. Lucretiam sedentem maestam in cubiculo inveniunt. Adventu suorum lacrimae obortae sunt, quaerentique viro: « Satin salve? », « Minime - inquit. - Quid enim salvi est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Conlatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons et amor meus soli tibi est: mors testis erit.Sed date dexteras fidemque haud impune adultero fore ». Dant omnes fidem. Consolantur aegram: adfirmant mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. « Videte - inquit - quid illi debeatur: ego me, etsi peccato absolvo, supplicio liberare nolo, nec ulla deinde impudica uxor Lucretiae exemplo vivet. » Cultrum quem sub veste abditum habebat, eum in corde defigit, prolapsaque in vulnus periit. | Lucrezia, moglie di Collatino, affranta poichè era stata struprata da Sesto Tarquinio, mandò un nunzio al padre a Roma e al marito ad Ardea, affinchè giungessero con un amico fidato per ciascuno, perchè era successo un fatto atroce. Spurio Lucrezio venne con Publio Valerio, e Collatino con Lucio Bruto. Trovarono Lucrezia seduta triste nella stanza. All'arrivo dei suoi iniziò a piangere, e al marito che chiedeva "Stai bene?" disse " Come può una donna che ha perso la sua pudicizia stare bene? Le tracce di un altro uomo, o Collatino, sono nel tuo letto; del resto solo il mio corpo è gravemente violato, il mio animo è puro e il mio amore è solo per te. La morte ne sarà testimone. Ma date la mano destra e la promessa che l’adultero non rimarrà impunito". Tutti giurarono. Consolarono la poverina: confermarono che è la mente a peccare, non il corpo, e in mancanza di deliberazione non c’è colpa. "Vedete voi - disse - ciò che egli si merita: io, anche se mi assolvo dal peccato, non voglio liberarmi dal supplizio, così che, da ora in poi, nessuna donna impudica viva nell'esempio di Lucrezia". Afferrato un pugnale che teneva sotto la veste, se lo piantò nel cuore, e piegandosi sulla ferita, morì. |
Antiquis temporibus Romani patres familias uxoribus, liberis suis ac servis severo arbitrio imperabant. In sacrificiis deis et deabus semper opimas victimas praebebant ac immolabant, et sacra rite perpetrabant. Patrimonium a patre familias administrabatur, officia autem vitae domesticae a matrona eiusque ancillis explebantur. Saepe uxores cum suis ancillis in villae atrio per multas horas lanam texebant vestibus propinquorum qui domi habitabant. Interdum vespere a matribus toga praetexta filiis et filiabus familiae parabatur, vel vestis aspera a mulieribus texebatur servis domesticis, quibus saepe domini superbe imperabant.Saepe pater familias luxuriam molestum detrimentum censebat,sed liberis suis ad eorum necessitates voluptatesque pecuniam tribuebat. | Nei tempi antichi i padri di famiglia Romani comandavano le mogli, i loro figli e gli schiavi con ordini severi. Nei sacrifici agli dei e alle dee, offrivano e sacrificavano sempre le vittime feconde e compivano i riti sacri. Dal padre di famiglia era amministrato il patrimonio, mentre le funzioni della vita domestica erano compiute dalla matrona e dalle sue ancelle. Spesso le mogli con le loro ancelle tessevano per molte ore la lana nell'atrio della villa per i vestiti dei parenti che abitavano in casa. Intanto di sera la toga era preparata dalla madre di famiglia ai figli e alle figlie oppure la veste ruvida era tessuta dai servi. Spesso il padre di famiglia giudicava la lussuria una grave perdita, ma ai suoi figli donava il denaro per le loro necessità e per i loro godimenti. |
Apud Aesopum et Phaedrum, claros poetas antiquos, hanc fabulam legere possumus. Olim corvus in excelsa arbore considebat ut caseum, quem de fenestra subduxerat, otiose manducaret. Accessit ad arborem vulpes, cuius calliditas omnibus nota est; corvum vidit et fraudem excogitavit ut caseum subtraheret. Itaque blandis verbis avem temptavit: "Nulla avis inquit tibi similis est, coeve, nulla avis venustate te vincit. Qualis tuarum pennarum est nitor! Haud dubie quoque vox tua par est pennarum tuarum pulchritudini!".Tum corvus, stultus, vulpis laudibus inflatus, os aperuit ut vocem suam ostenderet, at simul ore caseum emisit, quem celeriter dolosa vulpes avidis dentibus rapuit devoravitque. Tum corvus deceptus stuporer ingemuit. | Da Esopo e Fedro, antichi poeti famosi, possiamo leggere questa favola. Una volta un corvo sedeva su un alto albero per mangiare senza preoccupazioni un pezzo di formaggio, che aveva rubato da una finestra. Si avvicinò all'albero una volpe, la cui astuzia è nota a tutti, vide il corvo ed escogitò un inganno per sottrargli il pezzo di formaggio. E così tentò l'uccello con blande parole: "Nessun uccello disse è simile a te, o corvo, nessun uccello ti vince in bellezza. Come sono splendite le tue ali! Senza ombra di dubbio anche la tua voce è pari alla bellezza delle tue ali!" Allora il corvo, da stolto, esaltato dalle lodi della volpe, aprì la bocca per far sentire la sua voce e nello stesso tempo fece cadere dalla bocca il pezzo di formaggio, che con prontezza l'astuta volpe afferrò avidamente con i denti e divorò. Allora il corvo pianse la (sua) stupidità. |
1. Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens vulgus ingemuit; clarorum quoque virorum hic affectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est: "vitam brevem esse, longam artem".2. Inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis: "aetatis illam animalibus tantum indulsisse, ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare". 3. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei impenditur, ultima demum necessitate cogente, quam ire non intelleximus transisse sentimus. 4. Ita est: non accipimus brevem vitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum pervenerunt, momento dissipantur, at quamvis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt: ita aetas nostra bene disponenti multum patet. | 1. Paolino, la maggior parte degli uomini si lamenta della grettezza della natura perché siamo generati per una così breve esistenza, perché la misura del tempo che ci è dato si consuma così velocemente, che, fatta eccezione per pochissimi, la vita lascia gli uomini proprio nel momento in cui in essi si preparano a vivere. A questa disgrazia, come viene ritenuta comune a tutti, non solo la folla e il volgo ignorante hanno rivolto i loro gemiti: questo sentimento ha strappato le lamentele anche di uomini illustri. Da ciò deriva questa esclamazione del più grande dei medici [Ippocrate] "La vita è breve, lunga l'arte”;2. Da qui deriva la polemica di Aristotele che polemizza con la natura [che ritiene] del tutto inadatta ad un saggio: "Essa (la natura) ha concesso agli animali tanto tempo che essi allevano cinque o dieci generazioni, mentre per l'uomo, creato per finicosì numerosi ed importanti, esiste un limite tanto più ridotto."3. Non abbiamo molto tempo, ma ne perdiamo molto; ci è stata data una vita abbastanza lunga anche per il compimento delle opere più grandi a condizione che sia impiegata bene. Ma quando viene spesa nel lusso e nella trascuratezza, quando scorre via nel lusso e nel disimpegno, quando non viene spesa per nessuno scopo buono, allorché alla fine ci incalza l'estrema necessità, ci accorgiamo che è trascorsa quella (la vita) del cui scorrere non ci siamo accorti.4. È così: non ci è consegnata una vita breve, siamo noi a renderla breve e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Così come le sontuose e regali ricchezze quando sono giunte ad un cattivo padrone in breve tempo si dissipano e, invece per quanto siano modeste, utilizzandole crescono se sono state affidate ad un buon custode, così la nostra esistenza è ampia per chi sa amministrarla bene. |
Pater quidam filio caveam donavit in qua duae aves erant: luscinia atque psittacus. Puer caveam e fenestra suspendit atque pulcherrimas psittaci plumas spectabat dum ita spectat, luscinia suavissimam cantum incepit; psittacus contra tacebat. Tum puer: “Pater – inquit – psittacus pulcherrima avis est, luscinae contra tetras plumas habet, nolo eam” sed pater respondit : “Expecta, filii mi, forsitan quondam luscinia tibi psittaco carior erit”. Saepe puer duas aves spectabat sperans psittacus quoque dulcissimus cantus editurum esse: et psittacus raro iucundas voces edebat.Luscinia contra saepe cantu suavi pueri aures mulcebat. Tum puer patri: “Iure – inquit – dixisti lusciniam carissimam mii futuram esse. Possibile non credebam eam tam dulciter cantare!”. Haec fabula docet primam frontem saepe decipere. | Un padre donò al figlio una gabbia nella quale vi erano due uccelli: un usignolo e un pappagallo. Il ragazzo appese la gabbia alla finestra e contemplò le bellissime piume del pappagallo mentre così guarda, l’usignolo incominciò un bellissimo canto; il pappagallo al contrario taceva. Allora il ragazzo: “Padre - disse- il pappagallo è un bellissimo uccello, l’usignolo al contrario ha delle piume scure, non lo voglio” ma il padre rispose: “Aspetta, figlio mio, forse l’usignolo ti sarà più caro del pappagallo” spesso osservava i due uccelli sperando che anche il pappagallo avrebbe emesso dolcissimi canti: ma il pappagallo raramente emetteva voci gioconde. Al contrario l’usignolo dilettava le orecchio del giovane con il soave canto. Allora il ragazzo al padre “Giustamente – chiese – dicesti che l’usignolo mi sarebbe stato molto caro. Non credevo possibile che esso cantasse tanto dolcemente. Questa favola insegna che la prima impressione spesso inganna. |
Minime vero permittenda pueris, ut fit apud plerosque, adsurgendi exsultandique in laudando licentia: quin etiam iuvenum modicum esse, cum audient, testimonium debet. Ita fiet ut ex iudicio praeceptoris discipulus pendeat, atque id se dixisse recte quod ab eo probabitur credat. Illa vero vitiosissima, quae iam humanitas vocatur, invicem qualiacumque laudandi cum est indecora et theatralis et severe institutis scholis aliena, tum studiorum perniciosissima hostis: supervacua enim videntur cura ac labor parata quidquid effuderint laude. | Non si deve dare per niente ai ragazzi il permesso di alzarsi e saltare mentre vengono elogiati, come al contrario succede presso i più: anzi, l'assenso dei giovani, quando ascolteranno, deve essere contenuto. Altrimenti succederà che il discepolo penda dall'opinione del docente, e pensi di aver mostrato bene quello che dal docente sarà accettato. In realtà, quella scorrettissima abitudine, che ormai nominano cortesia, di elogiarsi vicendevolmente ad ogni intervento, non solo è poco dignitosa e falsa e non ha niente a che fare con le scuole serie, però è pure nemica rischiosissima degli apprendimenti: se c’è pronto l’elogio per qualsiasi parola esca di bocca, diligenza e fatica sembrano del tutto superflue. |
Germani animus maxime bellicosus est; nihil enim nisi armati gerunt sed arma non sumunt antequam viri sunt. Cum adolescunt in concilium senum conveniunt et ibi arma scutum frameaque eis traduntur. In proelio decorum est inimicos superare et fugare autem probrosum est e pugna recedere vel ab inimicis fugari. Praecipuum Germanorum officium est vicos feminas liberosque defendere quare semper armis se exercent neque terram arant neque agros colunt. Agri enim dum viri continenter in finitimos bellum gerunt a feminis vel a servis coluntur. | I Germani hanno un'animo assolutamente guerriero; difatti non svolgono nulla se non armati, però non usano le armi prima di essere uomini. Mentre crescono, si mostrano all’assemblea degli anziani e là gli vengono date le armi, lo scudo e la lancia. In un scontro è cosa onorevole superare gli avversari e porli in fuga, è invece cosa umiliante scappare dallo scontro o venir messi in fuga dagli avversari. Essenziale dovere dei Germani è tutelare i villaggi, le donne e i figli, per ciò si allenano sempre con le armi e non seminano la terra e non coltivano i campi. I campi difatti, quando gli uomini fanno incenssantemente guerra ai popoli vicini, vengono curati dalle donne o dai servi. |
Omnium terrarum non modo Italiae, sed totius orbis pulcherrima Campania est. Nihil mollius caelo: nam omne anni tempus mitissimus est; nihil uberius solo: nam plurima fructuum genera terra copiose fert; nihil hospitalius mari: nam nobilissimi portus sunt Caieta, Misenus et Baiae, tepentibus fontibus praeclarae. Hic sunt, vitibus amicti, montes Gaurus, Falernus, Massicus omniumque pulcherrimus Vesuvius. Ad mare urbes antiquissimae atque celeberrimae sunt: Formiae, Cumae, Puteoli, Neapolis, Pompeii et ipsa caput urbium Capua, quondam inter tres maximas numerata.Ante sinum Cumanum amoenosissimae insulae sunt, Aenaria, Prochyta omniumque venustissima Caprae. | La Campania è la più bella di tutte le terre non solo dell'Italia, ma di tutto il mondo. Nulla più gradevole del clima: infatti in tutte le stagioni il tempo è molto mite; niente di più fertile del suolo: infatti la terra porta copiosamente molte specie di frutti; nulla più ospitale del mare: infatti Gaieta, Miseno, Baia, famosissime per le fonti termali, sono porti nobilissimi. Qui ci sono, coperti dalle viti, i monti Gauro, Falerno, Massico e il più bello di tutti il Vesuvio. Presso il mare ci sono città antichissime e famosissime: Formia, Cuma, Pozzuoli, Napoli, Pompei e la stessa Capua, capo delle città, un tempo considerata tra le tre più grandi. Davanti al golfo di Cuma ci sono isole gradevolissime, Enaria, Procida, e la più bella di tutte Capri. |
Vilicus ne sit ambulator, sobrius sit semper, familiam exerceat: consideret iussa domini, ne censeat sapere se plus quam dominum. Rem divinam, nisi Compitalibus, in compito aut in foco ne faciat. Semen, cibaria, far, vinum, oleum mutuum numquam det neve iniussu domini credat aliis. Duas aut tres amilias habeat, rationem cum domino saepe putet. Boves magna cum diligentia curet, bubulcis diligenter boves curantibus praemia reservet. Aratra et vomere et omnia ad agri culturam utilia omni cura habeat, terram propter imbres cariosam ne aret neve plaustrum neve pecus impellat: nam triennii fructum amittet.Pecora et boves diligenter substernantur, ungulae curentur; caveto scabiem pecoris et iumentorum, fame vel frigoribus insistentibus. Opera omnia mature conficiat. Nam res rustica sic est: si unam rem sero feceris, omnia sero facies. | Il fattore non sia girandolone, che sia sempre frugale, che eserciti (si occupi) della famiglia: osservi bene gli ordini del padrone, e non giudichi di capire più che il padrone. Non compia sacrifici (letteralmente le cose divine = cerimonie religiose), se non per i compitali, nel crocchio nel focolare. Non dia mai un seme, gli alimenti, il farro, il vino, l’olio in prestito e non presti senza l’ordine del padrone. Abbia due o tre dipendenti , faccia spesso i conti con il padrone. Curi i buoi con grande diligenza, riservi i guadagni ai bifolchi che curano i buoi diligentemente. Tratti con ogni cura gli aratri e i vomeri e tutte le cose utili alla coltura dei campi, non coltivi la terra guasta a causa delle piogge e non inciti né il carro né il bestiame, infatti, abbandoni il frutto (guadagno) per tre anni. Siano assoggettati i greggi e i buoi, siano curati gli zoccoli, provveda al sudiciume (malattia della pelle) del gregge e delle giumenta, alla fame e ai freddi che insistono. Porti a termine i lavorii a tempo opportuno. Infatti è così la cosa di campagna (l’agricoltura): se avrai fatto una cosa tardi, farai tutte le cose tardi. |
Subsets and Splits